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Milano (Slow Food):“Dall’estero cibi con pesticidi vietati sulle nostre tavole. Piccoli agricoltori presidio per il territorio”

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di Gaetano Gorgoni

Slow food, Serena Milano

BERGAMO – In questi mesi abbiamo assistito alle continue proteste di agricoltori esausti e alla canna del gas, inchiodati in un sistema che li sta strozzando. Con la segretaria generale di Slow Food, Serena Milano, proviamo ad analizzare la complessità del problema per cercare di capire quali proposte possono veramente salvare l’agricoltura e il paesaggio rurale italiano.

Gli agricoltori pongono un problema molto serio: arrivano quantità infinite di frutta prodotta con pesticidi dall’estero (prodotti chimici che qui in Europa vietiamo). È un paradosso che non possiamo ignorare! Nei supermercati di tutta Italia arrivano frutti, carne e altra merce estera non prodotta in modo sano.

«I due elementi chiave per sostenere un’agricoltura sana, virtuosa e giusta: sono l’equità, un prezzo giusto agli agricoltori, e una concorrenza leale che oggi non c’è. Stiamo facendo un lavoro di approfondimento su riso, soia e carne per fare una campagna anche in vista delle elezioni europee e chiedere ai candidati di farsi portavoce della promozione delle clausole specchio (le quali impongono che la produzione delle merci che arrivano in Europa segua le regole di sicurezza alimentare europee)».

Se non giochiamo ad armi pari, rischiamo il collasso agricolo e lo sdoganamento di cibi nocivi sulle nostre tavole… 

«Questo si può ottenere solo con le mirror clauses: se io devo seguire delle regole di sicurezza alimentare nel mio paese, vale anche per chi esporta dall’estero in Europa». 

Questo vale anche per il lavoro: rispetto delle regole per evitare il dumping…

«Esatto. È più difficile controllare le condizioni lavorative: per quello ci sono le certificazioni di cui dobbiamo fidarci. Ma sui residui chimici basta fare le analisi di laboratorio anche a campione: lì non si può scappare!». 

Queste criticità sono emerse su tanti prodotti, grazie agli esami fatti dalle nostre autorità: vengono a galla pesticidi che in Italia non possiamo utilizzare. Il problema è enorme. 

«Basti guardare alla soia: noi siamo grandi importatori di questo prodotto. I più grandi quantitativi di soia che sbarcano in Europa arrivano dal Brasile, che è una nazione che consuma un quarto dei pesticidi prodotti nel mondo e tra questi quelli basati su principi attivi che in UE sono vietati da 15/20 anni». 

Abbiamo cacciato i pesticidi pericolosi dalla porta e rientrano dalla finestra: un ritorno agli anni ‘80 inconsapevole! Un paradosso! 

«Sì, ma c’è un paradosso ancora più grande, perché questi pesticidi vietati vengono prodotti in Europa: l’Austria e la Svizzera li vendono al Brasile e quest’ultimo vende i prodotti riempiti di sostanze chimiche all’Europa. Un circolo vizioso paradossale. La multinazionale produce in Europa ciò che è vietato, lo rivende all’estero e ci ritroviamo sulle tavole comprando la soia brasiliana». 

Bisogna avvisare i consumatori costantemente: oggi c’è più sensibilità su questi temi, vero? 

«È il consumatore la nostra unica speranza. La consapevolezza può cambiare le cose, altrimenti è difficile un cambiamento dal basso. In alto ci sono interessi economici spaventosi, soprattutto quando parliamo di soia: si tratta di mercati giganteschi, potentissimi sul piano economico. Dall’alto è difficile che arrivino cambiamenti spontanei. Il consumatore deve interrogarsi da dove arriva la carne che mangia, chi l’ha allevata, come l’ha levata, cosa ha dato da mangiare agli animali: ha visto un filo d’erba nella sua vita o no?». 

Lei ha usato un termine giusto a proposito dei problemi dell’agricoltura: “complessità”. Spesso si cercano soluzioni semplici a fenomeni molto complessi. Gli agricoltori hanno avanzato tutta una serie di richieste, a volte in in maniera scomposta, con una serie eterogenea di richieste. Però volendo sintetizzare il problema più grosso possiamo dire che l’agricoltore guadagna pochissimi centesimi mentre chi vende i suoi prodotti, soprattutto le multinazionali, incassano la maggior parte del denaro, vero?

«Questa è una storia antica perché sono decenni che la politica ignora il settore primario, che è abbandonato a se stesso, schiacciato dalle logiche della distribuzione. Da una parte hanno le multinazionali, che fanno il prezzo di tutto: semi, fertilizzanti, pesticidi e la genetica delle razze; dall’altra c’è una grande distribuzione che detta legge sui prezzi. Il settore primario, che è fondamentale per l’ambiente per la nostra salute, è schiacciato e ignorato, perché anche in termine di addetti e di numeri è inferiore rispetto ad altri portatori di interessi. Ormai si va dal 3% al 6% degli occupati nel settore agricolo». 

Così si rischia lo spopolamento delle campagne e l’abbandono  a se stesso del paesaggio rurale, che invece ha bisogno di cura costante. 

«Certamente. Le multinazionali producono a valle, non stanno anche sui monti come fanno i piccoli agricoltori. Se tutti i piccoli, poco per volta chiudono, si concentra tutto a valle. Le realtà grandi hanno bisogno di sussidi, perché da sole non riescono a stare in piedi e ne prendono tanti dallo Stato. È una favoletta quella che viene raccontata da anni: ci raccontano che bisogna unirsi, accorpare e costituire grandi realtà. Invece, piccoli sono un presidio per il territorio, una toccasana per l’ambiente! Accorpare non è la soluzione! Il piccolo non ha solo la funzione di produrre, ma cura il territorio e il paesaggio. Una produzione completamente industrializzata rappresenta dei costi per l’ambiente, la salute e il paesaggio».  

Mi sembra di capire che lei indichi un’unica strada: quella di una visione politica, di un intervento istituzionale organico, vero? 

«Succede che quando parlo con gli agricoltori in protesta e dico che il tema è politico, qualcuno fa delle smorfie, come per dire che la politica deve restare fuori». 

Eppure la politica rappresenta la vita di tutti i giorni, le decisioni, le scelte che condizionano il nostro futuro… 

«Chi può mettere insieme così tanti aspetti se non la politica: il tema del paesaggio, la salute delle persone, l’educazione alla sana alimentazione, l’educazione dei consumatori, la necessità di inserire in ogni scuola l’educazione alimentare per scongiurare anche patologie gravi che attanagliano una fascia della popolazione. Troppi giovani non hanno consapevolezza di ciò che mangiano: mettono in pratica un consumo distratto. Quello di cui parlo io è un intervento congiunto interministeriale: che coinvolga Ministero della Salute, dell’Agricoltura, della Pubblica Istruzione, le politiche sulle aree interne e altri soggetti istituzionali. Solo la politica può fare questa sintesi. Invece abbiamo visto un esempio di mala politica, che ha preferito trovare soluzioni semplicistiche a problemi complessi, concedendo solo il contentino del taglio dell’Irpef e cercando di strumentalizzare le proteste. L’80% degli agricoltori non arriva a 10 ettari, quindi non è toccato dagli interventi sui terreni a riposo. Le proteste sono state strumentalizzate in modo populista contro l’Europa, che con il green deal, per la prima volta stava provando a cambiare le cose cose. Stava provando perché ancora la Pac continua a sostenere le grandi aziende. C’era una speranza e l’hanno affossata!». 

Non si vedono grandi soluzioni all’orizzonte, dunque…

«A parte qualche contentino, hanno bloccato il percorso di riduzione dei pesticidi, hanno dato un ulteriore deroga alla richiesta dei terreni a riposo, che sono fondamentali per la fertilità della terra. I problemi veri sono rimasti tutti sul tavolo». 

Slow food, con la sua filosofia del mangiar sano, è cresciuto ed è diventato un grande brand capace di incidere sull’opinione pubblica. Cosa chiedete concretamente al governo? 

«Dal punto di vista della strategia complessiva noi continueremo a sostenere un’agricoltura che vada verso l’agrioecologia (un sistema che soddisfa sia i bisogni alimentari sia quelli di sviluppo a breve e a lungo termine, senza destabilizzare il sistema terrestre): agricoltura che lavora con la natura e non contro la natura. Sembra uno slogan, ma non lo è! Abbiamo puntato sui presidi slow food: continueremo a rivendicare il prezzo giusto per chi lavora, perché non si può far coltivare il frumento e pagarlo come 10 anni fa. Ma neanche ci si può far prendere in giro pagando troppo, se dietro non c’è una filiera sicura e corretta. Noi abbiamo introdotto l’etichetta narrante che racconta tutto di quel prodotto: cosa ha mangiato l’animale allevato, cos’ha fatto e altro, così il consumatore riconosce il giusto valore a quel prodotto e non lo spreca. Poi, chiediamo due interventi al governo: inizieremo una campagna di raccolta firme per l’inserimento dell’educazione alimentare obbligatoria in tutte le scuole, perché si sta perdendo anche il passaggio generazionale di queste conoscenze. Bisogna assolutamente intervenire sulla scuola e inserire queste conoscenze lì. Poi, come le dicevo all’inizio, chiederemo ai candidati per le europee di inserire nel loro programma la richiesta di applicare le clausole specchio: importare solo prodotti che abbiano gli stessi standard qualitativi di quelli del paese di produzione”.